Giancarlo Buzzi, nato a Como il 18 aprile 1929 da genitori di ceto impiegatizio (padre segretario comunale, madre insegnante elementare), trascorse la fanciullezza in un villaggio del comasco, in un contesto agricolo/industriale, connotato primariamente dall’industria della seta. Per tutta la vita gli sarebbe rimasto nelle orecchie l’ininterrotto battito dei telai (macchine delle fabbriche e, soprattutto – giorni festivi e notti comprese –, di quelle che eseguivano a domicilio lavori, come si diceva, à façon). Madre dolce e mite, padre alternante intense tenerezze, giocosità, disponibilità e pazienza a repentine e imprevedibili parentesi di violenza palesemente spiegabili con un’infanzia, adolescenza e prima giovinezza famigliarmente asperrime, infelicissime e nevrotizzanti. Era comunque un uomo nel quale la dimensione fantastica prevaleva, accompagnandosi con una tendenza a guardare con particolare attenzione e coinvolgimento agli aspetti non banalmente ma drammaticamente comici dell’esistenza: sicché, per esempio, dopo le educativamente gelide abluzioni mattinali, lui e il figlio dedicavano un bel po’ di tempo a leggersi e rileggersi a vicenda Rabelais, Cervantes, Swift, Boccaccio, Porta, et similia. Il tutto senza censure e riguardi, con abbondanza di risate e con vitalistica adesione, radice di allegria ma anche – non di rado – di tristezza. Al padre Buzzi dovette molto della sua voglia e determinazione di non distogliere lo sguardo da tutti gli aspetti della realtà mondana, anche i più feritori, e della sua attitudine a cogliere il momento in cui la comicità trapassa nella tragedia e viceversa.
Morta quarantenne la madre, per un cancro che la fece urlare per mesi (questo era allora il frequentissimo regime del cancro in assenza di articolate terapie del dolore, tolta la tradizionale morfina), Buzzi cominciò a trascorrere metà – quella della frequentazione del ginnasio e del liceo classico – del proprio tempo a Como, coabitando con la nonna materna, donna di estrazione contadina – nascita e gioventù a Lomello; scuola elementare consistente nella lettura ovviamente acritica, nella memorizzazione e recitazione del catechismo, e nel rammendo di montagne di calze portate dalla maestra, una per tutte le classi, doviziosa di nipoti; lavori agricoli fra i quali la monda del riso –. Da lei Buzzi ebbe una prima immagine di ciò che da più variegate frequentazioni intellettuali e fisiche avrebbe in seguito imparato sulla condizione femminile nell’Italia a cavallo fra Ottocento e Novecento. La nonna, fruente di una striminzita pensione di reversibilità del defunto marito, operaio delle ferrovie (piuttosto squattrinato era anche il padre di Buzzi, sia perché i segretari comunali in quell’epoca erano malpagati, sia per la sua totale incapacità di arrotondare in qualsiasi modo lo stipendio), si sforzava senza costrutto – c’era la guerra – di lenire la nipotesca fame adolescenziale: oltre la carta annonaria nel complesso non si andava, tranne in rare occasioni in virtù della pietosa e graziosa fornitura di un po’ di riso (provenienza lomellina) da parte di parenti rimasti campagnoli, trasportato a Como con faticosi e fortunosi, anche se non privi di divertimento viaggi su carri bestiame. Compensava questa insufficienza alimentare, la nonna, con una grande considerazione per la personalità del nipote e con una palese, ancorché con lui non verbalmente esplicitata, ammirazione per la sua intelligenza: considerazione e ammirazione che non rischiavano di avere effetti esaltanti sul loro oggetto, grazie alla loro amena paradossalità sfiorante una sorta di genialità ironica/linguistica in una contadina per la quale scrivere il proprio nome Carolina era ardua, quasi torturante impresa, richiedente una lunghissima applicazione (la si sentì una volta dire a un’amica: «l’è tant intelligent che l’è fina stupid»: frase felicemente allusiva al punto in cui gli opposti, grazie alla parimenti intensa riavvertenza ed evidenziazione di una loro misterica radice, si confondono e trapassano l’uno nell’altro).
Prometteva spesso la nonna al giovane l’inferno (sollecitata a esplicitare l’esatta destinazione rispondeva convinta «nel profondo») per la sua insufficienza, anzi temutissima e angustiante radicale carenza fideistica, e per il suo libertarismo comportamentale, ma non faceva nessun tentativo di porre limiti al medesimo. Spingeva la propria curiosità e disponibilità fino ad ascoltare, in genere dopo le spartane refezioni meridiane, la lettura dei suoi elaborati scolastici, non molto forse capendone ma commuovendosi a volte fino alle lacrime. Va da sé che Buzzi non aveva in tasca il becco di un quattrino, tranne eccezioni di tanto in tanto per qualche mancia elargitagli da uno zio acquisito («Tieni, così potrai fare una spesetta»), marito di una sorella della madre, medico condotto sul lago di Como, dotato anche, in virtù di un’eccellente scuola di chirurgia fatta a Napoli, di ragguardevoli qualità chirurgiche (questo zio lo portava spesso con sé come aiutante tuttofare – trasporto della pesante borsa dei ferri, pulizia con cotone e alcol parziale e mirata (aree corporee di misura sufficiente per auscultare poggiando l’orecchio, privilegiato a quel tempo rispetto allo stetoscopio, o per operare) dei sudicissimi pazienti, tenuta dei medesimi il più possibile fermi durante gli interventi minichirurgici effettuati sovente senza costosa anestesia, eccetera – quando sul mulo con cui lo si veniva a prendere si recava a svolgere la sua opera in villaggi montani dove l’arrivo del medico era comunicato con un intenso e vivace scampanio (invito a profittare della sua presenza, di norma risparmiosamente rimandata fino a incombente pericolo di decesso).
Il Liceo Classico Volta di Como, di cui Buzzi fu alunno, era in quel tempo ubicato nello stesso edificio che ospitava la biblioteca civica, glaciale d’inverno e torrida d’estate (non era consentito nemmeno nel mese di luglio starci senza giacca), nella cui sala di consultazione quasi sempre il nostro, vorace lettore, fruiva di una solitudine totale. Per accedere a tutti i libri, compresi quelli considerati – eminentemente sotto il profilo erotico/sessuale – soverchiamente audaci, bisognava avere superato una certa età, e dunque negli anni precedenti il raggiungimento della piena adolescenza avere contraffatto qualche documento, cosa a cui Buzzi aveva provveduto abilmente (con il complice e divertito aiuto tuttavia del padre). Ogni tanto egli si concedeva un’uscita nel grande corridoio d’accesso per fumare: un compagno di classe aveva un parente robustissimo fumatore – abbastanza quattrinoso per procacciarsi prodotti anche stranieri –, e riforniva lautamente Buzzi di mozziconi con cui fabbricare pestifere sigarette multimarca (pur sempre migliori di quelle realizzate con succedanei quali la camomilla, le barbe – propriamente stigmi – delle pannocchie di granturco, la carta da zucchero o da macellaio ecc.). Era, questa fabbricazione tabacchina con mozziconi, parte dell’utilizzo dell’usato ch’era in quei tempi, più che pratica diffusissima, imperativa e incontestata norma, anche e primariamente per il cibo e l’abbigliamento (in quest’ultimo settore la cosa poteva avere risultati estrosi se non eleganti: nella buzziana fattispecie pantaloni genitoriali alla zuava rivoltati, in tessuto a quadri bianchi e verdi; indumento nero ereditato dal nonno materno in tessuto indefinibile a fungere da compromesso fra soprabito e cappotto; cappello anch’esso nero di foggia borsalinica a media tesa con nastro; calzettoni di lana grezza bianchi; scarponi gialli di aspetto promettentissimo, regalo di un parente riuscito a sottrarsi in extremis all’invio sul fronte russo, che persero deludentemente le loro credute solidità e impermeabilità dopo due o tre modeste piogge, quasi fossero – probabilmente lo erano – di cartone pressato).
Non vantava, il suddetto liceo, insegnanti famosi: tutti erano però solidamente preparati nelle loro materie, amavano il loro mestiere e avevano a cuore il dialogo con i giovani di cui cercavano di stimolare il potenziale, senza pigrizia, pregiudizi, discriminazioni e condizionamenti. Tutti in effetto erano attenti a non lasciarsi influenzare, nel rapporto con gli allievi, dalle loro posizioni ideologiche. Riuscivano a comportarsi così e a dare molto nonostante arrivassero in classe massacrati dalle fatiche (lezioni private a iosa, che dovevano impartire per campare con le loro famiglie). Di questi docenti Buzzi era il beniamino: un beniamino per buona ventura abbastanza palesemente sprovvisto di vanità per non suscitare l’insofferenza, la polemica e la ripulsa dei compagni. Non c’era nessuno dei docenti in questione che non presagisse per Buzzi un brillante avvenire: a tal punto, con tale calore e insistenza lo presagivano da farne apparire la non concretizzazione – di cui l’interessato è deciso sostenitore per, a suo avviso, inconfutabili prove – quasi giusta conferma da parte della sorte del proprio arbitrario potere. Per tutti questi maestri Buzzi ebbe affetto e gratitudine – per i cattolicissimi Paolo Maggi e Mario Margheritis, per il comunista Renato Scionti, per il crociano di stretta osservanza Giorgio Polverini (autore fra l’altro di un elegante saggio laterziano, L’estetica di Charles Baudelaire) –, ma un legame più stretto ebbe con il docente di italiano, Giacomo Sfardini, che nell’ultimo anno del liceo divenne pressante, quasi martellante nella sua induzione dell’allievo a scrivere qualcosa di extrascolastico.
Giovanissimo, ancora studente liceale, Buzzi fu implicato nella Resistenza – Fronte della gioventù (organizzazione costituita a Milano nel gennaio 1944 su base ideale e programmatica elaborata da Eugenio Curiel), SAP –. Di questa fase esistenziale egli per discrezione non ama parlare: fu caratterizzata comunque, come ovvio, da fervore, slancio intellettuale e sentimentale, sanamente ingenuo entusiasmo. Ne trasse senza dubbio insegnamenti preziosi e ne conobbe protagonisti diventati poi famosi in positivo e negativo, e in alcuni casi tragicamente.
Dopo il 25 aprile 1945 partecipò energicamente – dando un buon contributo alla loro organizzazione – alle attività (conferenze, dibattiti, incontri, mostre, ecc.) con le quali si cercava di promuovere un interesse per e un rapporto con la cultura di sapore dialogico e comunitario da parte di una città sotto questo profilo non particolarmente calorosa (in quegli anni almeno, forse anche perché concentrata su altre più operative urgenze). Una città che pure aveva e avrebbe avuto nel Novecento un ruolo protagonistico nell’urbanistica, nell’architettura, nelle arti figurative, e vantato artisti – per fare a titolo meramente indicativo solo alcuni importanti e prestigiosi nomi – quali Antonio Sant’Elia, Giuseppe Terragni, Pietro Lingeri, Cesare Cattaneo, Manlio Rho, Mario Radice, Aldo Galli, Carla Badiali, Carla Prina. Fra costoro Buzzi ebbe frequentazioni con Rho e Radice, ma più vicino si sentì per ragioni di età a persone quali Francesco Somaini (scultore che avrebbe meritatamente raggiunto fama mondiale), Antonio Spallino (intellettuale di vasti interessi, vivace sindaco di Como, autore di stimolanti studi e promotore di magistrali iniziative in campo urbanistico), Morando Morandini (che si avviava a diventare uno dei più autorevoli storici e critici del cinema italiano). Forte amicizia nutrì per due artisti che attendono purtroppo ancora un riconoscimento meno pigro e avaro per i loro lavori rispettivamente sculturale e pittorico, Eli Riva e Francesco D’Arena. Cominciò a Como la sua amicizia fraterna – corroborata in seguito da una annosa collaborazione lavorativa – con il fotografo Aldo Ballo e sua moglie Marirosa (il loro studio fotografico si sarebbe imposto come primario interprete dell’evoluzione del design italiano in anni di esplosiva creatività). Il quadro delle frequentazioni amicali di Buzzi in quegli anni sarebbe troppo manchevole se non si citassero Giuseppe Merzagora, che sarebbe diventato uno dei più vicini collaboratori di Zeno Saltini (il prete fondatore di Nomadelfia), ed Ezio Chichiarelli, filosofo, e storico, autore di un penetrante saggio uscito da Laterza su Alexis de Tocqueville, instancabile, stimolantissimo e apertissimo organizzatore culturale. Con Giuseppe Merzagora e su un camion attrezzato a cinebiblioteca (alla guida un simpatico giovanotto, Mario Paulin) dell’YMCA – Young Men’s Christian Association –, nell’estate del 1946 Buzzi vagabondò assiduamente nelle vallate del comasco e del sondriese, lasciando nei villaggi, di solito nelle mani di collaborativi maestri elementari, cassette di libri da dare in lettura che venivano sostituite in occasione del successivo giro, e presentando e proiettando – ricorda ancora il tipo di proiettore, Fumeo Fax 4: qualche interruzione di corrente in intere vallate era fatale tributo pagato dal tecnicamente non provvedutissimo operatore – film sui quali sollecitare discussioni che riuscivano spesso animatissime: primo episodio di un lavoro di cultura popolare (allora infelicemente detto anche di “educazione degli adulti”) che gli sarebbe accaduto di fare più vastamente e approfonditamente, e con più corposi mezzi una decina d’anni dopo in contesto olivettiano, con l’utilissima collaborazione della milanese Società Umanitaria (presieduta da un personaggio leggendario dell’antifascismo, Riccardo Bauer, il dialogo e la collaborazione con il quale Buzzi considera e considererà sempre come una fortuna toccatagli, e gestita da un direttore molto intelligente ed entusiasta, Mario Melino) e della francese Peuple et Culture. Sanamente sparagnino il compenso dell’YMCA, appena bastevole per sonni in arcaiche locande e refezioni spartane a base generalmente di uova sode e cicoria.
Le attività culturali che si svolgevano a Como nei primi anni del dopoguerra erano le più varie, e vari erano i protagonisti delle medesime: si andava dal famosissimo, libertario e indocile prete cattolico Primo Mazzolari che discuteva di problemi teologici e sociali con lo straordinario pastore della chiesa valdese comasca, Carlo Lupo («Guarda che cosa può succedere», diceva costui a Buzzi: «che i lupi diventino pastori»), a Onorato Damen, comunista dapprima bordighista e poi duro avversario di Amadeo Bordiga, che presentava la sua interpretazione della dottrina marxista, a Francesco Flora, che intratteneva l’uditorio sul futurismo, a Bruno Caizzi che parlava della questione meridionale e d’ogni sorta di problemi storici/economici, al francesista Bruno Revel, che discuteva del ruolo di Maurice Barrès nel nazionalismo francese e delle reazioni di Gide al suo libro Les Déracinés. Non mancavano gli episodi tragicomici: una mostra – non rigorosa ed epocale, ma abbastanza rappresentativa e comunque piacevole – organizzata da Buzzi nel salone del Broletto (freddo polare) sul gruppo degli astrattisti comaschi andò quasi deserta; visitatore particolarmente attento in uno degli ultimi giorni dell’apertura un molto anziano ed elegante gentiluomo, che la percorse tutta, indugiando a lungo davanti a ogni quadro; raggiunta l’uscita, prima di andarsene si voltò verso l’interno e scagliò contro i quadri e l’organizzatore in veste anche di custode una violentissima imprecazione. In un’altra occasione, Buzzi e Merzagora, organizzatori di una serata il cui programma comprendeva esecuzioni di due brillanti musicisti, il pianista Carlo Vidusso e il violinista Riccardo Brèngola, e la recitazione delle sue ultime poesie (Giorno dopo giorno, non certo le sue cose migliori) da parte di Salvatore Quasimodo, dovettero rendersi conto, a programma già iniziato, che la persona che si era impegnata a finanziarlo e avrebbe dovuto essere lì con il denaro, non si era fatta e chiaramente non intendeva farsi viva, ed era irraggiungibile. Non poterono fare altro che aggirarsi, durante il prolungatissimo intervallo (con evidente sollievo, peraltro, di Vidusso che ne profittò per tenere a lungo fra le mani una bottiglia di rame piena di acqua calda), con un sorriso mascherante l’angoscia e – come popolarmente si diceva – con gli oli santi in tasca, sudati a dispetto della bassura del termometro, fra il pubblico, per fortuna folto, molto simpatizzante dopo l’iniziale stupore e persino divertito, sperando di raccogliere la somma necessaria per onorare i patteggiati compensi (non lauti: non erano tempi di larghezze). Miracolosamente ci riuscirono, guardati alla fine con perplessità dai tre attori della serata che intascarono il dovuto sotto forma non di banconote ma di monete.
Furono, il 1945, 1946 e 1947, per Buzzi anni importanti, segnati anche dal suo incontro con Martha (sfollata da Milano a Cernobbio, allieva di Merzagora, che l’aveva preparata ad affrontare da privatista gli esami di maturità liceale: ospite non fugace di sanatori per quella ch’era allora una malattia grave e diffusa, la tubercolosi, non aveva potuto frequentare continuativamente la scuola), che sarebbe stata sua moglie per oltre sessant’anni. Ora che Martha è scomparsa dice di rendersi conto – cosa che accresce la sua tristezza – che non riuscirà mai a saldare il debito contratto con lei: debito verso la sua grazia ed eleganza, la sua capacità di amare senza possessività, la sua spericolata generosità e non corriva indulgenza, la sua solidarietà con i vinti e assenza di invidia per i vincenti, la sua renitenza a giudicare e condannare accompagnata da insofferenza per il perdonismo quando più ritualistico che sincero, la sua malinconia unita alla propensione a cogliere ogni pretesto di allegria, la sua capacità di partecipare alla vita di chi le stava vicino (non solo in veste di coniuge) senza invadenza e tuttavia mai rinunciando a una garbata e critica stimolazione, la sua costruttiva ironia nei propri come negli altrui confronti, la sua infine mai dismessa provocazione al dialogo (commovente richiesta, quest’ultima, alla quale egli non fu sempre capace – imperdonabilmente – di rispondere con prontezza e impegno). Dei difetti che naturalmente e fortunatamente non le mancavano a Buzzi non importa parlare: temperandole avvaloravano le sue qualità positive, rendendole in tal modo più fruibili. Difetti carnali e senza dubbio anche spiritali, egli aggiunge: se infatti la carne è – non c’è chi lo neghi – debole, lo spirito, e si tende a dimenticarsene, riesce talvolta a esserlo quantitativamente e qualitativamente di più.
Delle altre donne che hanno abbellito allietato crucciato afflitto problematizzato la sua vita – scomparse o esistenti – Buzzi si proibisce (a malincuore ma considerandolo doveroso) di parlare, non sapendo se sarebbero state o sarebbero contente ch’egli lo facesse in questa circostanza. Di una tuttavia pensa che potrebbe rincrescersi se il suo nome in questo stringato resoconto biografico mancasse, e dunque ve lo inserisce: Anna, fascinosa coprotagonista di un lunghissimo compagnevole rapporto, reciprocamente fruttuoso perché fondato sulla condivisione di alcuni capitali valori ma animato da una ferma volontà di esplorare e discutere se stessi, gli altri, i problemi e le vicende terrene, il noto e l’ignoto.
Nel dare e nel ricevere, nell’incontro e nello scontro, nella concordia e nella discordia, nella dolcezza e nell’asprezza, nelle voci e nei gesti, nella comunicazione e nel silenzio, nella mestizia e nella gioia, nella condivisa convinzione dell’importanza e della necessità di uno scambio dialogico in consapevolezza della sua difficoltà, soprattutto nella sovente condivisa tensione conoscenziale volta anche ai grandi misteri ancorché risaputi impenetrabili, i rapporti con le donne in questione furono in varia misura gratificanti, arricchenti, magistrali. Convinto ammiratore e sostenitore della intensamente spiritata terrestrità delle femmine – in altre parole del loro privilegiatamente immediato contatto con la materia e con lo spirito (lo spirito senza la materia e la materia senza lo spirito a suo vedere non esisterebbero) – , e della loro forza a paragone della quale la forza dei maschi gli è sempre parsa poca cosa, Buzzi ne ha sempre scritto e non si stancherà di scriverne nei suoi libri, fino a quando capacità scrittoria gli rimarrà (che lo scrivere implichi un intento più o meno intenso e cosciente di recare, senza pretesa di infallibilità, testimonianza gli sembra addirittura ovvio).
Nel 1947, quando già era entrato nell’ordine di idee di cercarsi un lavoro, le finanze paterne non garantendogli la possibilità di frequentare l’università, Buzzi vinse il concorso di ammissione – primo classificato con il massimo dei voti – al Collegio Ghislieri di Pavia, fondato nel 1567 (conferimento papale di un ingente patrimonio immobiliare a garanzia di sopravvivenza in autonomia; progetto architettonico del celeberrimo Pellegrino Tibaldi) da un importante pontefice, Pio V (Antonio Ghislieri). La fama di costui è anche e in buona misura affidata alla promozione della Lega Santa – 1571 –, una coalizione militare fra un gruppo di stati cattolici, la cui imponente flotta di galere e galeazze sotto le insegne pontificie (il nerbo erano le navi di Venezia, Spagna, Genova), al comando di don Giovanni d’Austria, riportò una vittoria schiacciante ed epocale su quella ottomana a Lepanto. Un papa di robusto intelletto e di fortissima personalità, dotato di vasta cultura e in particolare di profonda preparazione teologica, rigidissimo moralista, intransigente lottatore contro eretici dissenzienti riformisti, severissimo e accanito inquisitore, acceso paladino della controriforma, duro persecutore di ebrei nonché di protestanti di varie confessioni, e su questa falsariga si potrebbe continuare. Insomma, un personaggio con il cui carattere, i cui ideali e i cui comportamenti non è facile rapportare una istituzione come il succitato Collegio, aperto dapprima solo ai chierici, ma decisamente laicizzato a partire dalla metà del Settecento, quando il patronato ne fu assunto direttamente dalla monarchia asburgica, fino al netto libertarismo della condizione attuale.
L’università di Pavia, sulla cui antica e gloriosissima storia non è il caso di soffermarsi, negli anni in cui la frequentò Buzzi non era ricca di cattedre e i suoi insegnanti erano in maggioranza di età avanzata o vecchi. Giovani ne arrivarono quando Buzzi stava per terminarvi o aveva da non molto terminato il suo soggiorno pavese (per un anno interrotto – non si trattò di imitazione di Martha – da una vicenda tubercolare/sanatoriale): fra i nomi di maggiore prestigio di questi “nuovi” è d’obbligo citare quelli del filosofo Enzo Paci, del glottologo Piero Meriggi, dell’italianista Lanfranco Caretti (Buzzi ne fu assistente per un anno), dei filologi, italianisti e storici della lingua Cesare Segre e Maria Corti. L’età avanzata non toglieva comunque nulla alla valentia degli insegnanti con cui Buzzi aveva a che fare e alla loro calda disponibilità nei confronti degli allievi. Come già nel liceo, Buzzi fruiva della particolare considerazione e attenzione del corpo professorale. Il suo dialogo fu necessariamente vivo con il docente di letteratura italiana Luigi Fassò (seguace della scuola storica, persona di formazione e di interessi eminentemente eruditi), con il filologo romanzo Antonio Viscardi, con i latinisti e grecisti Massimo Lenchantin de Gubermatis ed Enrica Malcovati, con lo storico della grecità e romanità Plinio Fraccaro, con lo storico delle età medievale e moderna Ettore Rota. Ma una reciproca intensa simpatia ci fu anche fra lui e l’ironico, disincantato e spiritosissimo indianista e sanscritista Luigi Suali.
A Pavia Buzzi concluse la prima fase dei suoi studi filologici e letterari, laureandosi con una tesi su Grazia Deledda (inserita dall’Università di Pavia in una propria collana di saggi: il Collegio Ghislieri ne finanziò la stampa presso l’editrice Bocca). Avrebbe poi proseguito questi studi, ampliandoli con incursioni nella sociologia, con borse di studio in Francia (Strasburgo e Parigi) e Stati Uniti (Università Cornell e Brandeis), e con altri soggiorni più o meno lunghi in altri paesi.
Terminati gli studi universitari, non volle puntare a una attività professionale nel campo dell’insegnamento. Temeva in qualche modo di rimanere imprigionato nell’ambiente accademico, desiderava un più multiforme contatto con la realtà. Il sospetto di avere avuto torto lo ha spesso turbato, diventandogli finalmente quasi certezza (irrilevante tuttavia dopo il raggiungimento della vecchiaia). In virtù della sua scelta, comunque, lavorò per aziende industriali e commerciali, in svariati settori merceologici.
Si occupò dapprima soprattutto di pubblicità. Non era ancora completamente chiusa la fase artigianale della pubblicità, e l’ineluttabile e giustificatissimo predominio delle grandi agenzie non era ancora totale: nel corso del suo itinerario nel territorio della pubblicità – nel quale fu tappa interessantissima il servizio pubblicità e stampa della Pirelli, diretto da un simpaticissimo, umanissimo, molto intelligente e per alcuni aspetti geniale personaggio, Arrigo Castellani – Buzzi ebbe la ventura di conoscere e più o meno frequentare un certo numero di protagonisti della grafica italiana, da Antonio Boggeri a Ezio Bonini, ad Aldo Calabresi, a Erberto Carboni, a Franco Grignani, a Max Huber, ad Anita Klinz, a Giancarlo Iliprandi, a Bruno Munari, a Remo Muratore, a Bob Noorda, a Giovanni Pintori, ad Armando Testa, a Pino Tovaglia. Con due di questi personaggi, ai quali fu più legato, Noorda e Tovaglia, lavorò in più occasioni intensamente, come con due grandi fotografi con i quali ebbe stretti rapporti di amicizia, Aldo Ballo – di cui già sopra si è detto – e Ugo Mulas. Alcune campagne di Buzzi furono considerate particolarmente originali e stimolanti, per esempio quelle per la Bassetti – grafica di Noorda e Tovaglia –, il Saggiatore, le Pagine gialle – per entrambe grafica di Antonio Lojacono –, la Standa – grafica di Mimmo Castellano, al quale si dovette anche il radicale rifacimento del design dei libri Vallecchi nei primi anni Settanta del secolo scorso –. Un saggio di Buzzi, La tigre domestica, fu tra i primissimi corposi contributi al dibattito sulle implicazioni sociali politiche culturali della pubblicità.
Non finito ma diventato meno assorbente e diretto il suo coinvolgimento in questo settore della comunicazione, lungo il suo cammino aziendale Buzzi si occupò via via, da dirigente, da amministratore delegato e da consulente, di tutti gli aspetti strategici e operativi della gestione. La sua presenza fu per anni significativa soprattutto nell’industria editoriale (Saggiatore, Mondadori, Vallecchi). Come collaboratore di Adriano Olivetti, ai tempi dell’entusiasmante esperimento da costui promosso nel Canavese con il Movimento Comunità, si interessò anche attivamente di organizzazione sotto tutti i profili del territorio e di interventi di tipo sociale economico culturale urbanistico, nonché amministrativo e in qualche misura anche politico, sul medesimo.
Vale la pena di ricordare una parentesi di circa un triennio nel suddetto itinerario, durante la quale Buzzi – pensando di divertirsi e di intensamente socializzare, e riuscendoci, sia pure a prezzo di una non lieve fatica – tenne un ristorante, “La pastaccia” (nome dovuto al fatto che il menu privilegiava i primi piatti), di formula alquanto avveniristica (elegantissima progettazione dello studio Monti GPA/architetti Gianemilio e Pietro Monti, e Anna Bertarini, moglie di Gianemilio; arredamento di Pino Pedano; posateria e stoviglie di Roberto Sambonet; tovagliame e oggettistica varia di Arform e di altre aziende di primissimo piano). Suonava molto bene il pianoforte verticale un anziano tapeur (come la sua non facile professione richiedeva, fornito di vasta conoscenza del patrimonio della musica leggera e abile intrattenitore del pubblico senza prevaricare). Quando la cucina chiudeva o per qualche ragione andava in crisi, Buzzi sopperiva cucinando in sala cibi alla fiamma (ne divenne esperto). Non doveva essere banale e antipatico il posto, se era animato punto di riferimento nel dopo teatro di molti attori, e se persino un amabilissimo e famosissimo arbiter elegantiarum e indiscusso protagonista per decenni della moda italiana, Beppe Modenese, non rifuggiva dal frequentarlo (e dall’organizzarvi alcune sfilate di indossatrici).
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