Opere

Buzzi non è stato e non ha mai desiderato essere scrittore prolifico. Autocritica, discrezione, rigorosa mancanza di tensione presenzialistica, magari un tantino di saggezza mista a disincanto: questi e chissà quali altri aspetti della sua personalità hanno agito come freni, a indubbio vantaggio – egli ama sostenere e ne sembra persuaso – del non folto manipolo dei suoi lettori. Nessuna preclusione giudicatoria in lui nei confronti dei produttori di manufatti scrittori d’ogni sorta con ritmo magari vertiginoso. Ce ne sono di validissimi (tra questi egli vanta alcuni dei suoi migliori e più stimati amici), e ce ne sono di pessimi, che tali tuttavia probabilmente sarebbero anche se scrivessero un unico sudatissimo libro in una lunghissima vita. Buzzi, semplicemente, ha un suo modo di lavorare che male si concilia con una intensa produttività. Scrive velocemente ma progetta lentamente – mai, fra l’altro, facendo “scalette” –, si porta dentro i progetti, spesso solo abbozzati, parziali, vaghi a lungo, interrompe frequentemente la scrittura, non ne ha mai abbastanza del materiale documentario che raccoglie, e così via. Ma soprattutto non gli interessa la quantità dei propri manufatti compiuti, semmai anzi se questa quantità crescesse oltre un certo limite ne diffiderebbe. Gli interessa, dei relativamente pochi manufatti della sua officina, ch’essi testimonino in buona misura energia e novità di scavo e approfondimento, e positivamente provocatoria tensione linguistica innovativa. In parole povere e tentativamente riassuntive: Buzzi non sdegna affatto la quantità, ma non ha per sé ansie quantitative: ne ha solo qualitative (sono, non c’è dubbio, le più severe, mordaci, rischiose). Certo, non dispiacerebbe al nostro essere Balzac – a chi mai potrebbe dispiacere? –: ma forse, se dovesse scegliere fra essere autore di tutti i romanzi balzacchiani (dei quali, incidentalmente, ha tradotto con amorosa adesione un bel gruppetto) o di uno solo dei romanzi di Stendhal o dell’unico romanzo (Under the volcano) di Lowry sarebbe proclive ad abbracciare – più consone con la sua personalità – la seconda o terza opzione. In ogni caso, egli sa che quand’anche volesse, nella sua non veneranda inoltratissima ottuagenarietà, funestata per giunta da una serie imponente di annosi malanni che lo rendono simile a un épave, nessuna chance gli si offrirebbe di cambiamento. Les jeux sont faits.

Con la stessa parsimonia Buzzi ha critto articoli e saggi su giornali e periodici. Ha tradotto, in alcuni casi prefando e antologizzando, testi di fìction, memorialistica, critica letteraria, sociologia, storia dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo (da Quevedo a Casanova, a Balzac, a Maupassant, a Proust, a Melville, a Kipling, a Dos Passos, a Malamud, a Packard, a Kershaw, ecc.)

Il primo fascicolo della rivista «Concertino» (1 giugno 1992)
Il primo fascicolo della rivista «Concertino» (1 giugno 1992)

Per due anni ha diretto la rivista di comunicazione pubblicitaria “Strategia”. Nel 1992 ha fondato e per quattro anni, fino alla chiusura dovuta alle banali difficoltà finanziarie che affliggono questo tipo di periodici, editato e diretto la rivista di varia cultura Concertino” (progetto grafico di Bob Noorda; presenza oltre a Buzzi nel comitato direttivo di Rossana Bossaglia, Raffaele Crovi, Virginia Finzi Ghisi, Mario Lunetta, Quirino Principe, Mario Spinella).

Non pochi testi – sugli etruschi, sui greci in Italia, sulle civiltà del Mediterraneo, ecc. – stanno a testimoniare il suo forte interesse per la divulgazione (una divulgazione intesa ovviamente come presentazione, a un pubblico di non specialisti, di problemi senza arbitrariamente semplificarli e dunque tradirli: sforzo eminentemente linguistico).

Per ciò che riguarda le sue opere narrative, Il senatore (attingiamo liberamente a uno stimolante “risvolto” di Luigi Baldacci), testo ricco di motivazioni libertarie e contro il sistema, è uno dei più precoci che illustrino, con quasi l’andamento di un’avventura picaresca, il tema “industria e letteratura” o “letteratura e neocapitalismo” – definizioni di comodo e di matrice notoriamente vittoriniana, che a Buzzi piacciono poco, anche se ne capisce e dunque in parte giustifica l’intento. Si indicavano e ancora si indicano in questa maniera un certo numero di testi che in vari modi – più o meno scoperti – affrontarono dopo la seconda guerra mondiale il tema del mutato rapporto fra l’impresa (eminentemente la grande impresa, fenomenologicamente più esemplificativa) e la comunità.

Il senatore (prima edizione Feltrinelli 1958)
Il senatore (prima edizione Feltrinelli 1958)

Il mutato rapporto in questione riguardava tutti gli aspetti dell’imprenditoria e del contesto comunitario: scambi, influssi e condizionamenti reciproci, coincidenze e disparità di valori, obiettivi delle imprese (limitati al profitto o, appunto, arricchiti dalla consapevolezza di una non lieve responsabilità nei confronti degli ambienti socio/economici/culturali – istituzioni e persone – in cui le imprese stesse erano inserite e sui quali potevano anche grandemente influire in positivo e in negativo). Una problematica nuova o, comunque acutizzata dagli sviluppi della società e dalla sua cresciuta complessità: rare le imprese che vi si erano dimostrate sensibili precedentemente, e fra queste la maggior parte avevano tentato di affrontarla, la problematica in questione, in chiave paternalistica, non di partecipazione, di coinvolgimento, di diritto della manodopera e delle comunità. Il senatore descrive la vicenda nevrotica del dirigente di una grossa industria il cui padrone è invisibile e incontattabile, per il dirigente stesso e per la con lui dialogante fantasmatica quotidiana incarnazione del fondatore che angosciosamente e inutilmente cerca un contatto con il figlio (il discorso si riferisce palesemente a uno degli importanti elementi caratterizzanti l’evoluzione dell’imprenditoria nel secondo dopoguerra: il passaggio, in un numero di casi sempre maggiore, dall’azienda di proprietà e gestione familiare all’anonima corporation). Ma Il senatore non è probabilmente solo questo: ne sosteneva anzi una tutta diversa interpretazione – una sua prossimità alla letteratura di interrogazione religiosa, esistenziale ed escatologica – una fra le più provvedute italianiste italiane, Milva Maria Cappellini, in una recensione andata purtroppo perduta per la repentina chiusura del giornale a cui era destinata.

L'amore mio italiano (prima edizione Mondadori 1963)
L’amore mio italiano (prima edizione Mondadori 1963)

Nello stesso ambito del rapporto fra impresa e comunità è stato collocato L’amore mio italiano. Facile riconoscerne l’ambiente, la città di Ivrea in cui nacque e crebbe la Olivetti, diventata sotto la guida di Adriano Olivetti azienda pilota, addirittura avveniristica nel contesto italiano. L’impresa di cui nel libro si avverte il determinante influsso sulla città è questa, con il suo potenziale ancora intatto, anche e soprattutto nel campo dell’informatica e ancora non afflitta dai problemi finanziari provocati dal suo acquisto della statunitense Underwood. Sarà proprio la fuoriuscita dall’informatica (delle cui cause, motivazioni e protagonisti – suscitanti non poche perplessità – non è davvero il caso di discorrere in questa sede) a determinarne la progressiva sofferenza e decadenza. Siamo insomma, nel libro, alla città in cui è ravvisabile lo spirito dell’esperimento – nei confronti del quale per fortuna stanno aumentando l’interesse e i riconoscimenti della cultura italiana e non solo italiana – promosso e portato avanti per anni da Adriano Olivetti con il nome di Movimento Comunità. Il protagonista del libro è un giovane dirigente aziendale che vive in una “città del benessere” – ponentesi come immagine di una società futura –, e che dal suo fascino è conquistato («C’era intorno […] qualcosa che nelle altre città mancava: una dolce sicurezza. Ci si sentiva protetti, dai giorni a venire e dai dubbi, dai pericoli e dai mutamenti imprevedibili […] Non ci mancava nulla. solo a stendere la mano, afferravamo cose grate […] Avevamo la nostra promessa che tutto questo non sarebbe stato in eterno soltanto per noi, ma sarebbe diventato di tutti […]». Sta bene, il dirigente in questione, nella città, ma al fondo di sé non la ama, il mondo del suo cuore è ancora quello dei padroni e degli oppressi, nel quale agli oppressi è data «insieme alla miseria la possibilità di rivoltarsi e di conquistare la libertà». Per accettare la città gli occorrerebbe che non avesse cancellato, oltre alla povertà e alla ricchezza, l’ansia e il desiderio del nuovo. Il problema che il libro pone è quello della tensione fra l’ansia riformistica e l’ansia rivoluzionaria. È anche quello dell’importanza e necessità dell’utopia come stimolo al fare e del pericolo della sua realizzazione. Sotto tutto questo corre una vicenda d’amore anch’essa espressione della ricerca da parte del protagonista di una “alterità” e di una rottura della norma.

Isabella della grazia (Scheiwiller 1977)
Isabella della grazia (Scheiwiller 1977)

Il libro successivo a L’amore mio italiano è Isabella delle acque (un dittico composto da Isabella della grazia e Isabella della stella). La ricchezza e complessità dei temi e modi rendono difficilmente riassumibile quest’opera (in virtù della quale – anche e specialmente per la tensione a un’innovazione linguistica che la sostanzia e che prosegue nei libri successivi, non pigramente, semplicisticamente e ingiustificatamente apparentabile al “gaddismo” o a uno sperimentalismo più o meno “avanguardistico” – Buzzi è stato considerato uno degli scrittori più innovativi del secondo Novecento). La trama – ciò che si intende di solito con questo trito e approssimativo termine – è ingannevolmente esile: una giovane donna, moglie di un industriale e amante di uno scultore, cerca la grazia. Quello ch’ella percorre e propone è un cammino iniziatico, arduo ancorché non impossibile.

Isabella della stella (Scheiwiller 1977)
Isabella della stella (Scheiwiller 1977)

Lo ha felicemente scritto Arnaldo Bressan, autore dei “risvolti” dei due volumi del dittico e di un felice saggio sul medesimo: «[…] l’universo della grazia non può intenderlo chi non vinca il timore del diverso; ma se accetta i rischi del viaggio cui l’ironica Isabella cerca d’indurlo e ne accetta la sfida, anche la vince: Isabella è lì per condurlo, con la sua forza di liberazione e di scandalo, in un’utopia del quotidiano che è tale solo perché così la vuole il mondo degli ordinari commerci […]». La grazia, lo spirito, l’intelligenza, il cuore, la potenza che si spotenzia nell’atto e vi si invera ripotenziandosi, l’inessente essenza e l’essente inessenza, l’essenza in alterità, la tensione “asperanzica” alla conoscenza, la contraddizione e l’ambiguità, il divino abisso e la terra frammento di stella, la vita morte e la morte vita, l’amore nella multiformità dei suoi connotati e delle sue espressioni, la natura femminea nella sua complessità, l’amniosi, la maternità (la madre figliata e dunque maternata dal figlio), il perseguimento della grazia e la resa alla terra/stella (sconfìtta e vittoria al tempo stesso): la tematica del dittico è vastissima e quelli elencati ne sono solo alcuni elementi. Isabella delle acque è un’opera molto “materica”, anche se o proprio perché densa di richiami letterari e di motivi filosofici, metafìsici, teologici, morali.

L'impazienza di Rigo (Giunti-Camunia 1997)
L’impazienza di Rigo (Giunti-Camunia 1997)

Nel romanzo successivo, L’impazienza di Rigo, ambientato in una regione industrialmente molto sviluppata del paese (la Beanza, sotto il cui travestimento si riconosce la Brianza), si svolge una vicenda allucinante, ironica, grottesca. L’eroe del libro, Amerigo Pomponazzi detto Rigo, uomo di grande carica utopica, di ambiziosissimi ed entusiastici propositi, di notevoli successi e di corposi fallimenti, industriale della seta (tessuti per cravatte), sindaco di un grosso villaggio, militante in un partito della sinistra democratica, è protagonista di conflitti politici, finanziari, familiari, sentimentali. Costretto a un certo punto, per salvare la sua azienda in grave crisi, a cedere alla corruzione che domina nel paese, non si dà pace, vorrebbe a tutti i costi fare i conti con la giustizia. Ma la sua brama di punizione ed espiazione è frustrata dalla scettica negligenza di chi – ente e/o persona – la potrebbe soddisfare: Rigo non riesce, nonostante le sue istanze, a farsi inquisire e mettere agli arresti domiciliari. Provvede quindi da solo, ponendo alla magistratura seri problemi sostanziali e formali. Il testo è dunque anche una spassosa satira di Mani Pulite (qui Palmi Netti). Vi si ripropone il problema della irrinunciabile funzione stimolante dell’utopia e dei pericoli della sua attuazione. Una folla di personaggi e di situazioni popolano il testo e lo vivacizzano.

Dell'amore (Aliberti 2004)
Dell’amore (Aliberti 2004)

Si ripropongono parecchi dei temi e motivi di Isabella delle acque, in Dell’amore: Buzzi costruisce un romanzo labirintico, per molti versi sconvolgente, muovendosi spregiudicatamente tra le forme e i modi, appunto, dell’amore, e tra le sue implicazioni spirituali e carnali, con un linguaggio inconsueto, intrigante, a momenti deliberatamente spinoso e provocatorio. Spiccano fra i personaggi una donna incestuosa per disperato e caritatevole affetto nei confronti del figlio handicappato, di una ragazza anch’essa handicappata che non vuole rinunciare all’eros, innamorata di un giovane sacerdote che si interroga sulla propria vocazione e vive una vicenda sentimentale e sensuale con la madre di lei. Al centro delle storie interiori ed esteriori di questi e altri personaggi, c’è una vecchio prete, aperto e aperturista, anticonformista ma anche legato ai simboli di una tradizione fideistica ed ecclesiale. Punti di partenza e di arrivo di questo romanzo sono l’identificazione espressa dal dostoewskiano starec Zosima dell’inferno con la sofferenza di non potere più amare, e l’affermazione baudelairiana dell’irriducibilità dell’amore a qualsiasi schema di honnêteté.

Fra i letterati (termine infelicemente e troppo semplicisticamente denotativo, ma bisogna contentarsene) del Novecento – ne ha conosciuti e frequentati un bel numero – Buzzi ha avuto non pochi caldi, alcuni fraterni amici. (Di citarli prova forte tentazione, ma se lo vieta, per timore – molto gli rincrescerebbe – di omettere qualche nome, magari particolarmente caro e importante: si sa che la facoltà di dimenticare, capitale connotato della memoria, si intensifica capricciosamente ed esasperantemente nei vecchi). Ma è rimasto estraneo, per carattere, a gruppi e consorterie. Ha svolto il suo lavoro molto, probabilmente troppo appartato, e di conseguenza non viziato (quando non assurdamente e forse alquanto pigramente trascurato) dall’establishment letterario e più ancora accademico, sovente largo di attenzione riconoscimento plauso esaltazione mitologizzazione nei confronti anche di personaggi che amano la scrittura che praticano o di cui in varie vesti (studiosi, critici, maestri ecc.) si occupano di un amore non ricambiato. Pur non rallegrandosene, Buzzi – così ama dire a coloro che gli sono vicini – cerca di vivere la cosa come eccellente pretesto per praticare, con risultati inevitabilmente discontinui e comunque mai definitivi, l’esercizio per tutti utilissimo e per i cultori di qualsiasi arte necessarissimo di indefessa lotta contro le “pompe del demonio”, fra le quali occupano posti di prima fila la brama di successo e la vanità: il peggio che a suo avviso gli potrebbe capitare – è un’altra delle cose che di sé confida, questa con timore e tremore – sarebbe di meritarsi la stroncatoria definizione di Petrolini, di uomo “senza orrore di se stesso”. Forse ancora più angoscevole e riprovevole gli parrebbe il non essere in ogni momento conscio della propria condivisione della precipua colpa degli uomini, che giustamente è secondo Calderón de la Barca «haber nacido».